Il “rospo” che stroncava per amore. Giovanni Papini, un misantropo sentimentale
Pubblicato in: Pangea, rivista avventuriera di cultura & idee.
Data: 9 agosto 2022
Ignem reni mittere in terram
Secondo Emilio Cecchi in Un uomo finito, autobiografia di Giovanni Papini, ci sono eroismo, magia e divinità ma “manca l’uomo”. Manca la “serietà della vita” e perciò “la serietà della poesia”. Eppure nel testo del 1913 c’è tutto – eroismo, magia, divinità – proprio perché c’è l’uomo – e, restando nel perimetro del ragionamento del grande critico fiorentino, se c’è l’uomo, c’è anche la poesia – in tutta la sua tragica e paradossale serietà. Un uomo, certo, che come il filosofo della Genealogia della morale si dichiara ignoto a se stesso ma che per questo appassionatamente e con inconsueto ardimento si cerca, un uomo come un enigma.
Il libro, scritto in prima persona come se fosse un diario, espone per sommi capi la vita dello scrittore, dai primi anni fiorentini al periodo che precede la prima guerra mondiale. Tuttavia più che a una vera e propria autobiografia, Un uomo finito assomiglia a un’“anatomia”, a una drammatica storia del proprio cervello, a una vivisezione dei propri “avvenimenti interiori” che ripercorre il tempo come se non esistesse e che fa dello spazio un’occasione dello spirito. Questa confessione che custodisce la chiave della poetica papiniana è anche un dono dell’autore ai lettori nel momento fatidico dei trent’anni con la quale intende squadernare i propri documenti e difese in un’amara – ma al contempo fiera – rivelazione:
“se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch’io sia davvero un uomo finito dovrete almeno confessare ch’io son finito perché volli incominciare troppe cose e che non sono nulla perché volli essere tutto”.
Che Papini a trent’anni fosse davvero finito nessuno può crederlo – e neppure lui, in fondo, ci credeva; tuttavia nei primi del ’900 a trent’anni il senso di finitezza di un uomo poteva comunque arrivare alla sua terribile acme giacché, come annoterà Robert Brasillach in I sette colori, con i trenta si prende atto che non “esiste più nemmeno la speranza dell’illusione”. E il senso del fallimento di un autodidatta geniale che cerca tutto senza trovare nulla è il sangue dell’opera papiniana. Nondimeno in Papini la crisi è motivo di perenne riscatto: “il bambino nasce a nove mesi ma l’uomo comincia a trent’anni. Il fiore è fiorito ma il frutto ha da maturare innanzi di marcire” – si sente, qui come altrove, la eco lontana e trasfigurata di Zarathustra: “i tuoi frutti sono maturi ma tu non sei maturo per i tuoi frutti”. In effetti Papini non si sente maturo quanto i suoi frutti – per questo i suoi stessi frutti sono così amari, così aspri.
Papini è cresciuto in povertà – era pauroso, brutto, era un bambino nato vecchio, un “rospo” per l’altro sesso, antipatico, scontroso, “spettro slavato” dalle labbra che “verranno baciate troppo tardi”, un minuscolo reietto. E se l’adolescente Giovanni fu maltrattato perché vecchio tra giovani, in seguito lo sarà perché giovane tra vecchi. Già, perché Papini riserva a se stesso ciò che augura ai giovani e resta giovane fino ai suoi ultimi agonizzanti giorni: “li avrei voluti più violenti, più personali, meno seri e meno fonografi”, capaci di “passarmi addosso senza rimorsi”.
D’altra parte pure la gioventù è una conquista che passa attraverso la tortura, la diversità che strappa, esilia dal mondo; non l’inclusione ma l’esclusione ha fatto di Papini Papini, la solitudine ricercata e disperata, costruita a colpi di scudisciate e rotture. L’esclusione di uno che non piace ha ricacciato il vecchio fanciullo afflitto dalla “persecuzione della curiosità” nel labirinto dei libri – forzieri proibiti per un disgraziato, vie di fuga illusorie, fucina di pessimismo, divaricatori di abissi, avamposto di distacco elitario. I libri che fanno vivere da un’altra parte e che per converso ci possono rendere ciuchi da biblioteca e sterili schedaioli infettano lo spirito allorquando da lettori si brami di diventare scrittori – scrittori veri, s’intende, ossia infelici, battitori che abbattono se stessi, mestatori della propria intima carne, sinceri vangatori di ferite, cercatori di chimere scandalose, eroi del meta-umano, fulmini che sfumano in un crepuscolare auto-barbaglio. E Papini questa s-fortuna ce l’ha: è uno scrittore autentico – uno che scrive edificando case di “parole e di sangue” non per i soldi, nemmeno per la gloria “borghese”, certo non per accedere ad ambienti, salotti e consorterie varie. Papini non scrive per “far ridere, lacrimare e commuovere”, non è un buffone di corte, un gentile menestrello che vende agli annoiati signori la vita che non hanno. Non scrive neanche per una sorta di egoistico autocompiacimento, per raccontarsi di essere migliore, per rispecchiarsi nell’ideale di se stesso, per essere la sua stessa scimmia. Tutt’altro: egli scrive per sfogarsi nel senso più “fognaiolo” del termine, per “invettiva e per l’insulto” – il suo spirito è una protesta – per lasciare un segno indelebile, per offendere ed essere offeso ora – e ricordato domani; scrive perché teoforo di una luce che al sole non si vede, di una lanterna dalla vampa più sottile. E per raggiungere questo tipo di eternità serve un uomo che se ne freghi dei salamelecchi e delle contingenti leccature di contorno – e bisogna soffrire, essere pronti all’attacco ingiustificato, alle stroncature contraccambiate, all’odio. Giacché se si sputa in faccia agli altri si rischia che lo sputo torni indietro, se si martella si rischia di essere martellati e se si utilizza la penna come una fiamma ossidrica si rischia il rogo. E di questo Papini non solo è cosciente ma in un certo senso è ciò che auspica – sa benissimo cosa accade a chi utilizzi la parola come “una fucilata a bruciapelo” e ogni idea come una bomba.
Egli se ne strafotte delle adulazioni, stronca per amare e ama chi non gli risparmia la feroce durezza della condanna, ingiurie e appunto d’ogni specie stroncature. La stroncatura è una forma d’amore perché è molto meglio considerare gli altri con frustrate di parole che ignorarli o celebrarli immeritatamente. Solo gli altri sono in grado di vedere da fuori i nostri limiti, solo loro amandoci devono metterci davanti al nostro male. La stroncatura è anche un metodo di selezione, chi le resiste merita l’amicizia – quella che Papini riserva ad esempio a Prezzolini, chiamato nel romanzo Giuliano.
Quasi rievocando l’ironia e la maieutica socratiche, Papini decostruisce le certezze altrui ricacciando ognuno dentro di sé, “laddove non si scende volentieri”. Solo così gli altri possono essere condotti a se stessi: “non si rifanno gli uomini coi cerotti e l’omeopatia”, non si può amare se non disprezzando: “ci vogliono cure radicali e feroci”. Bisogna inoltre evitare l’uomo d’ingegno, il moderato competente, al bando la competenza e la dotta erudizione, bisogna puntare agli estremi, al genio: o Dante o nulla o Adamo o mascalzone! Scrivere ha a che fare con la vita – e la vita è crudele, irrazionale – “piccoli esseri in un piccolo mondo che l’un l’altro si ingoiano” – la vita è “contrapporsi a qualcosa”: si impara solo nell’agonia, nella umiliazione che purga – “solo nello spasimo nascono i feti della mente” – nella consapevolezza che, se si vuole essere dèi, urge esperire la miseria dell’essere uomini, il disorientamento che troppe letture innescano, l’insoddisfazione del sentirsi debitori, la consapevolezza di non riuscire a essere come il ragno “che tira fuori tutti i fili della sua opera dal suo ventre”.
Indiarsi attraverso la parola, accedere alle cose senza intermediari, essere la vita che si sente, sguazzare nel fiume della esistenza al di là del bene e del male, credere solo nella verità che fa, fare della verità un’azione, dell’azione la verità – sì, fino a scoprirsi nichilisti perfetti, stanchi financo del proprio utilitarismo, di ogni interesse, stanchi di cercare il miracolo risolutivo, intenti a risorgere senza illusioni, compagni di un mondo che cammina spietatamente, sicuri di lasciare ogni compenso, di lavorare per “ciò che sarà disfatto” sapendo che il disfacimento è il destino di ogni uomo, vivere senza sostegni, senza ragioni traendo “dal fallimento totale” una nuova vittoria. Tutte imprese che necessitano di grande coraggio, di un masochismo senza pari, di un amore più profondo. Leggere voracemente tutto, demolire i contemporanei per dialogare con i grandi morti, cercare un ordine per scardinarlo, immergersi nella filosofia per tradirne lo spirito sistematico, sbranare gli intoccabili per banchettare con la loro grandezza, “spogliare i cadaveri”, trovare nel male la grazia, il “mistero nella banalità”, la “bellezza nella spazzatura”; coniugare dissolvimento e fantasia nel rifiuto radicale, smascherare il buio di ogni luce e la luce del buio, non risparmiare a se stessi le più feroci accuse, sentirsi imbecilli, buffoni, piccoli, meschini, trovare sempre il fango, il nero delle stelle, essere lirici eppure cinici, toccare il fondo e dichiararsi finiti per poter sfidare nuovamente il cielo, bere litri di amarezza per dischiudere la dolcezza, tutto questo è Giovanni Papini.
Un mago d’altri tempi, uno scopritore di veli alla ricerca dell’ultima formula, un pragmatista che non dimentica la poesia. E se talvolta l’impeto nuoce alla precisione, se talvolta l’ispirazione dissacratrice sacrifica al suo ingordo dio gli algidi tecnicismi degli esperti, se talvolta le critiche sono sbrigative, se talvolta l’asprezza avrebbe potuto vestire altri abiti, se talvolta un maggiore senso di giustizia avrebbe potuto porre un freno alla spietatezza della invettiva, se talvolta la scintilla straripa nell’incendio, non c’è da stupirsi perché Papini resta un poeta anche quando non lo è, un estremista della esistenza, un “uomo d’un’altra razza” venuto sulla terra per portare il fuoco, per ricordare ai grandi di essere piccoli e per incoraggiare i piccoli a non essere epigoni, ma – Nietzsche – primogeniti. Papini è
““per i volontari, per le bande armate, per i briganti, per i liberi guerrieri delle piazze che rovesciano i re, per i cavalieri erranti che cercano avventure di spada come Casanova quelle di sottana”;
redivivo Don Chisciotte Papini vuole stracciare “le giacchette delle filosofie, le camicie dei pregiudizi”, vuole gettare via “le scarpe della logica e le mutande della morale”, vuole sciogliere “le cravatte scorsoie degli ideali”. Per questo bisogna essere folli e fanciulli, bisogna liberarsi di tutto e tutti, usare le stampelle come lance. In questo senso si può interpretare anche il pragmatismo papiniano che non è una mera riproposizione della filosofia dell’apprezzato James, non è qualcosa di autenticamente americano; è qualcosa di europeo, qualcosa di antico più che di moderno, di inattuale più che di attuale – un “sogno taumaturgico, vertiginoso, invincibile”.
Nella volontà di potenza che sottende l’esegesi papiniana si sente la religiosità eretica di Giordano Bruno, la volontà alchemica di trasformare se stessi che fu propria dei filosofi rinascimentali, si sente il romanticismo di Novalis, l’intuizionismo di Bergson, il vitalismo di Nietzsche, la disillusione di Schopenhauer, l’individualismo di Stirner, lo spirito avanguardistico, forse, nella sua travagliata religiosità, la futura adesione al cristianesimo e per molti versi l’occultismo – di cui, lo testimoniano la sua conoscenza di Arturo Reghini e in seguito la partecipazione al Gruppo di Ur, egli era conoscitore, sebbene, per sua stessa ammissione, non troppo esperto.
La critica allo spirito sistematico non riguarda solo la metafisica ma ogni costruzione che risolvendo la vita in un impianto concettuale ne ostruisca le sorgenti coniando una verità depotenziata, astratta. La verità è invece scendere come Cristo a livello del popolo, sentirsi parte della propria piccola patria – la Toscana –; è parlare la verace lingua degli avi, è anche sentire come i plebei, sputare come loro, imprecare, insultare, sparare; la verità è azione perché un pensiero che non sia in grado di trasformare il mondo non può essere vero – così come non è vero un uomo che, accettando passivamente la realtà, smetta di combattere, si faccia agire. Bisogna che il filosofo precipiti dalla teoria alla pratica concretizzando i suoi desideri, concentrandosi sui mezzi e creando una filosofia e una morale personali, sempre in via di mutamento e sempre orientate alla gnosi di se stessi e alla onnipotenza – con la truce e ricorrente consapevolezza che però si possa poi diventare impotenti per troppa potenza e considerare tutto alla stessa stregua in un sorta di immobilizzante potere. Una filosofia che d’altro canto consenta non di essere la natura ma di contenerla in sé – “come se le montagne e le stelle fossero membra del mio corpo”.
Ribadendo tutta la sua distanza dal materialismo e dal socialismo, per Papini il mondo si cambia solo se si agisce sull’anima degli uomini – non viceversa. Rifare il mondo e rifare sé è la magia di Papini – una magia fatta di scrittura:
““prosa quadrata, compatta, soda, sana, robusta che faccia vergogna ai profumieri e ai liberti di tutte le più letterarie letterature”
per poi divenire “soave come i gigli della valle”. Uno stile senza “ripieni, zeppe e annacquature”, materico, popolare e familiare, ma al contempo solenne e maestoso, apparentemente povero ma ricco – graffiante, marziale e nella sua radicale aderenza alla vita poetico – la prosa si fa d’un colpo verso così come dalla dura roccia sgorga pura l’acqua.
Giovanni Papini, inesauribile, inestinguibile come la fiamma dell’Inferno, come l’agognata eternità. Papini, l’unico misantropo sentimentale, un uomo finito – solo in un diario.
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